Succede nei telegiornali | A Gipsy in the Kitchen

Succede nei telegiornali

..ma siamo noi comuni mortali a fare le notizie.

Questo è stato un whatzup di mia zia. Dopo il fattaccio.
Varcati i 3 mesi, quasi 4. O meglio 14 settimane. Pensavo fosse cosa fatta. Pensavo che bastasse tappezzare la macchina di cuscini, e gridare come un’isterica ad ogni buca o tombino. Pensavo bastasse prendermi cura del mio corpo in maniera maniacale:  pesce fresco ogni giorno, una equilibrata alternanza di legumi, uova e latticini.
Pensavo bastasse arrivare a fine giornata, addormentarsi presto così che di notte non può succedere nulla e ti risvegli al mattino e sei già a meno un giorno da quando puoi incontrare il tuo piccolo. Le punture di progesterone. Le vitamine. L’acqua e limone. Il tè al posto del caffè. La respirazione yogica. Il fioretto. La meditazione serale. Nessuna crema, nessun profumo, nessuno smalto per tre mesi.

Pensavo che stesse andando bene. Ti dicono che l’aborto spontaneo in caso di anomalie genetiche o cromosomiche arriva prima della 13ma settimana.
Vedi il suo cuoricino. Inizi a sentire le famose farfalle nello stomaco. Lo vedi roteare e fare saltelli nel tuo utero. Lo vedi succhiarsi il dito. Tua madre comincia a comprare abiti e nonostante tu sei più superstiziosa di Oronzo e ad ogni chiamata le fai scenate perché no, deve aspettare a comprare la qualunque, sei felice e non vedi l’ora di spacchettare quei micro golfini.
Sorridi alle altre mamme. Pensi ai nomi. Pensi a quanta televisione potrà guardare.Alla scuola che farà. Ai viaggi che intraprenderemo tutti e 4 insieme.

E’ come se avessi anche già sentito il profumo del tuo collo: assomigliava a quello del tuo papà, ma più talcato. Mi sono immaginata così tanto questo momento da percepire ogni sentore possibile.

E poi.
Poi è il black out.
Quando meno te lo aspetti, dicono, come una bomba. Entri per sapere il sesso, esci correndo in urgenza al Sacco perché c’è la necessità immediata di un altro consulto. Il cervello nella parte anteriore non si è diviso.
Pensi: avrà visto male.
Non è possibile. Siamo sani, non abbiamo mai avuto casi pregressi in famiglia. La mappatura cromosomica era perfetta. Non è possibile.
Reciti tutte le preghiere che conosci sulla strada che ti divide dallo studio del dottore al reparto di ginecologia dell’ospedale.

Le gambe cedono ma ti ricordi che lo hai appena visto, è vivo, il battito c’è. Devi stare calma perché sente tutto. Ma la lacrima è lì. E’ lì perché lo sai in fondo. Da quando quel mattino ti sei alzata con il cuore in gola, senza sapere bene il perché ma con appiccicata quella sensazione di qualcosa di storto. Lo sai perché il gatto Romeo che porta fortuna quella mattina non era ad attenderti al solito posto. Lo sai perché il Destino è beffardo: hai temuto per tutto, tranne che proprio per un problema così.

Eppure.

Eppure eccoci qui, un fast forward all’ingresso dell’ospedale. Il tuo papà ha dovuto aspettare sotto perché avevamo con noi Brie, l’avevamo portata per farle vedere subito il suo fratellino o sorellina dal monitor. Quindi lui deve aspettarti giù – Alessandro, il mio amore, il tuo papà, l’uomo che mi sorregge ad ogni buca, mi aspetta giù. Non sta capitando a noi: ci guardiamo. Mi sento schiacciare dalla responsabilità di aver fallito: nel mio corpo, come madre, e come compagna. Lo guardo negli occhi, l’ultima cosa che avrei voluto è fargli passare questo dolore. Perché lo vedo, lo vedo e lo sento il dolore che sta già provando. Il nostro amore è sempre collimato in un bisogno di proteggerci dal brutto del mondo, ma il brutto del mondo sta facendo capolino in una giornata di fine agosto improvvisamente e senza chiedere permesso.

Entriamo quindi. Io e la mia pancia. Un abbraccio ad Ale, un bacio a Brie e pensi – speri- che comunque finirà bene. Ce lo diciamo, non può essere diversamente. Perché a noi?
Sento solo il tamburo del mio cuore in testa, non capisci dove devi andare, segui delle ipotetiche istruzioni che hai ascoltato solo a metà.
Vedi il dottore, ti fa entrare. La prima parola che vorrebbe uscire è: la prego mi dica che va tutto bene. Invece esce solo un pianto. Sconsolato.
Perché lui già sa- perché lui ha avuto la eco prima che tu arrivassi e dalla sua faccia leggi i segnali che mandano i suoi occhi.

Nel frattempo accanto a te passano mamme di bimbi appena partoriti: felici. Papà che stringono a sé il frutto di nove mesi e lo mostrano ai parenti fuori dalle sale parto. E tu sei lì, con il tuo dolore. Sai cosa stanno provando perché lo hai immaginato milioni di volte. Ma non è per te.

Non sta capitando a noi. Non sta capitando a noi.
Dove ho sbagliato?Sono stata troppo seduta?O forse il sushi che ho mangiato quella sera in preda alle voglie infinite? O il caldo..è colpa del caldo….Lo sapevo che dovevo dare retta a mia madre e stare in montagna. O forse ho immaginato troppo, sognato troppo, e la vita quando sogni e immagini si diverte a scompigliare le carte in gioco: me lo aveva già insegnato, ma forse non l’ho ascoltata bene.

In realtà come più volte ogni dottore cerca di spiegarci, niente che abbiamo fatto o che non abbiamo fatto può causare ciò. E’ il 3% baby. Il fottuto 3% dentro il quale siamo finiti per un gioco improbabile di sfortuna.
Una grave malformazione, incompatibile con quella che potrebbe essere la vita poi. Non c’è soluzione se non quella di un raschiamento.

Non è vero. Non sta accadendo a noi. E’ un incubo, adesso mi sveglio e come ogni mattina avrò sete, mi scapperà per dieci volte la pipì, farò colazione, avrò i conati e tutto sarà normale. Perché il nostro bambino sta bene. Non è vero ciò che mi state dicendo.

Invece è fottutamente vero. Da lì è un attimo. Il lunedì te lo dicono, il mercoledì c’è la seconda eco con il doppio consulto per comprovare ciò che è già stato detto, e venerdì il raschiamento. Sembra poco ma credetemi non lo è.
Non lo è perché da quel lunedì al venerdì dell’intervento tuo figlio è vivo, dentro di te. Perché da lunedì al venerdì tu sei comunque incinta ma i tuoi sogni sono spezzati e sai che dovrai terminare la vita di quel feto che si succhia il dito dentro di te e chiedeva solo di essere messo al mondo.

E’ la perdita.

C’è di peggio, dicono. Compatibilmente a ciò che accade nel mondo, e messo in prospettiva, c’è di peggio. Chiaro che lo so. Chiaro ma quando sei travolta dalla perdita, irrimediabilmente cambi.
Come?
Non so ancora. O meglio sono arrabbiata: perché questo dolore non doveva riguardarci. Non volevo mettere l’uomo che amo in una situazione così sconveniente. Non volevo che il mio bimbo fosse costretto a lasciarmi ancora prima di avere provato cosa vuol dire vivere qui, nel mondo.
Per ora mi sto convincendo solo nel guardare in prospettiva. Nel guardare oltre. Nel mettere la fiducia come ho sempre fatto nel futuro.Nel far procedere le nostre vite.
Perché devo aggrapparmi a ciò che più di vero esista adesso: l’amore infinito che mi lega al mio compagno, il nostro cane, questo blog, la nostra famiglia, la nostra azienda. Questo è il prezzo per la felicità: è un prezzo alto ma da qualche parte bisogna pagare. Credo. Me lo ripeto travolta da una miriade di perché che rimarranno sempre senza risposta.

Il fatto conclamato è che la tragedia ci mette alla prova. Qualunque essa sia, di qualunque portata, aspettata, imprevista o immaginata, ci chiede la famosa forza che nessuno pensa di avere fino quando davvero essere forti è l’unica opzione rimasta sul tavolo. Perché la forza definisce chi siamo.

La maternità è un miracolo. E’ qualcosa di così incredibilmente sofisticato, fortunato e miracoloso che chi vi fa credere il contrario, mente. Mentono le foto su instagram di queste maternità perfette, con sorrisi appicciati una foto via l’altra che sembrano prodotti in serie. Quella non è la vita reale.
La vita reale è fatta di lacrime. Di attese. Di stop e di nuove partenze.

Mai avrei immaginato che un sogno sempre pensato facile, fosse invece così difficile da realizzare. Mai avrei pensato di ritrovarmi nella mia vita a fare un raschiamento.Il fatto è: te ne parlano. hai amiche che ci sono passate. Ma è un dolore talmente profondo che finché non lo provi non si può capire. Né immaginare.

Il nostro piccolo angelo volerà in cielo, e da lì ci proteggerà per sempre. E proteggerà la nostra Brie e i fratelli e le sorelle che forse arriveranno – o forse no, chissà. So che seppure la sua vita è stata così breve e piccola, per noi è stato ciò che di più prezioso potesse regalarmi il mio compleanno, questa estate. E sarà sempre parte di noi, prometto che non passerà giorno senza che ti porti nel mio cuore.

Aria- ti avremmo chiamato così. E Aria sarai perché ci regalerai ossigeno proteggendoci da lì, e sei ovunque, sarai dovunque noi andiamo, come l’Aria.

E adesso tocca far spazio alla superficialità, perché per superare questo, c’è bisogno di una gran dose di superficialità, altrimenti io davvero non so da che parte girarmi.

Fa malissimo alla sera: quando tutte le incombenze della giornata lasciano il posto ai pensieri. Quando ti sdrai sul divano e sbadatamente la mano finisce lì, dove c’eri tu piccolo angelo. So che adesso ci stai aspettando su quell’arcobaleno da dove ci proteggi…però sappi che la tua foto è stampata qui. Ogni odore, sentore e minuto passato insieme lo ricordo con tanto amore ed è nitido. Nitido e forte come se tu fossi ancora qui, dentro di me. Rimarrai sempre dentro di me. In quel posto che conosciamo solo io e te, ed il tuo papà. E quel piccolo dito che ti ho visto muovere per un istante, sarà eternità nei miei occhi.

Ti prometto che proteggerò la nostra fragilità: perché è quella che ci salva adesso. Perché chi è fragile si piega, ma non si spezza. E tu meriti una mamma che da quaggiù porti a termine tutto ciò che avresti dovuto fare tu. Che veda quegli angoli del mondo che ti sarebbero piaciuti. Cosa saresti stata? Una chef?, un dottore, un’astronauta?Quando ci pensavo, ti immaginavo felice. E basta. Felice come non mai, riccia come il tuo papà e buona come la nostra Brie. E continuerò a pensarti così. Tu guardaci da lassù.

Ho il cuore spezzato.

La foto che fa da cornice a questa lettera, è la foto che il tuo papà mi ha scattato un pomeriggio di agosto, caldo. La ritrovo ora, tu eri con noi. Ma c’era già n sentore, uno spicchio di eterno che baciava la mia pancia. Quel raggio di sole forse a dire, che su quel famoso arcobaleno, i miei adorati nonni stanno tenendoti sulle gambe, prendendosi cura di te e facendoti giocare. E allora noi qui giù ti immaginiamo così: sorridente e con uno sguardo cristallino, mentre stringi forte il dito del nonno Dino , aspettandoci.

Comunque andrà la vita, la tua mamma e il tuo papà non ti dimenticheranno mai.

Chiudo questo post con una poesia, che mi è stata inviata e che mi ha dato grande sollievo. Leggetela, copiatela e inviatela: perché di donne che hanno bisogno la forza necessaria a sopravvivere a un dolore, lì fuori, è pieno il mondo.

 

“Dietro a una grande donna ci sono inverni infiniti. Gli anni si contano in primavere, ma la maturità si misura in inverni. E si impara dagli alberi, che sono matti gli alberi a spogliarsi quando fa freddo, e invece no, abbandonano il superfluo, si fanno oggetti e aspettano. E si impara dai ricci che si chiudono e le spine vanno fuori, non dentro. Si impara che la letargia non è l’allergia all’inverno, si impara il letargo, come pausa piena di vita e di malinconia.

Dietro a una grande donna non c’è lato b o fattore c. Una grande donna di solito sa dire culo senza problemi e soprattutto sa riconoscere quando l’ha avuto e quando se l’è fatto.

Dietro a una grande donna c’è un futuro che non fa paura e “domani è un altro giorno” non è una minaccia

Dietro una grande donna ci sono le incomprensioni, i tradimenti, i colpi dati, quelli ricevuti, quelli schivati. Ci sono i “mai più” e i “mai dire mai”, c’è la voglia di dare un senso all’insensato e di capire anche quando non c’è niente da capire.

Dietro a una grande donna c’è una donna che accetta di diventare grande. Con tutto il carico di dolore, di sofferenza e di bellezza. Sulle spalle.”

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